venerdì, ottobre 01, 2004

Capuozzo dixit

Ho deciso di riportare interamente anche se è un po' lungo.
Grande Capuozzo.
Il mio messaggio è: diffondete! Tutti dovrebbero leggerlo.
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Questo servizio è andato in onda in tarda serata nell’edizione di “Terra” di domenica 26 settembre, quando Simona Pari e Simona Torretta erano ancora ostaggio dei terroristi

Sono passati venti giorni, in un’altalena crudele di sgomento, di falsi comunicati, lunghi silenzi, precari sollievi. Due ragazze, che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere, sono ancora perse e non sappiamo come stanno. Non sappiamo come vengano trattate, non sappiamo cosa pensino, come pensino a noi e a se stesse, non sappiamo cosa pensino prima di addormentarsi e che cosa sognino nella lunga notte. Non sappiamo nulla, se non che mancano da venti giorni. Sappiamo di noi stessi o crediamo di sapere. Ci siamo comportati bene, compunti come una scolaresca il giorno dell’esame: il governo ha fatto le sue mosse, l’opposizione ha fatto la sua parte, il presidente della Repubblica è stato come il padre di una famiglia meno rissosa del solito. I musulmani d’Italia hanno contribuito a dimostrare che con i permessi di soggiorno vengono distribuiti anche principi comuni, più forti di ogni multiculturalismo, o almeno il minimo sindacale: si liberino le due Simona.

E’ servito finora più a noi che a loro due. Certo non potevano mancare le analisi a buon mercato e l’esercizio estenuato delle ipotesi, il lavorio giornalistico ai fianchi delle famiglie con le postazioni sotto casa. L’ultima ricostruzione italiana del sequestro di cui abbiamo avuto notizia qui, sostiene che gli americani, arrivati sul luogo dopo pochi minuti, si sono guardati bene dall’inseguire i sequestratori, come a voler dimostrare ancora una volta la mano del perfido Allawi, del perfido Negroponte, e spacciare l’eterno teorema di Bush colpevole di tutto, della Cia dietro a ogni misfatto: sono loro i responsabili di tutto il male del mondo. Guardiamo da qui all’Italia come al nostro paese lontano, e a volte poco nostro, infagottato di correttezza politica e miopia. Metti un esempio banale: vediamo su un palazzo di Milano, ma immaginiamo anche altrove, le grandi foto delle due Simona. Tra molte hanno scelto proprio quelle in cui il capo è coperto dal velo, si chiede la loro liberazione mostrandole meno libere che in altre immagini. E’ vero, ci sono donne, e giornaliste, che si inchinano al rito con una civettuola sottomissione e persino esibiscono con gusto il dazio pagato, non al rispetto degli usi altrui, ma all’inciviltà dell’intolleranza. Le donne cristiane a Baghdad non portano il velo, hanno il coraggio difficile della diversità. Costa fatica guardare i fatti, terribili nella loro semplicità.

La morte di Enzo Baldoni è già stata dimenticata dai suoi stessi compagni di strada nella lezione feroce che impartì: siamo tutti colpevoli agli occhi del terrorismo. E nessuno si è mai chiesto quanti pacifisti, o magari solo persone per cui il baseball era tutto nella vita, morirono nelle Due Torri. Erano tutti colpevoli per Atta e bin Laden, erano tutti americani o servi della globalizzazione, per chi volle vedere in quel giorno non l’inizio di una guerra, ma la conseguenza cercata, magari non meritata in quella forma…ma comunque non è un problema nostro, chiamiamoci fuori. Guardiamo all’Italia da lontano, abbiamo scorto nelle manifestazioni le bandiere palestinesi, non il ritratto di Baldoni. E’ stato ucciso da un fuoco amico? E’ vero, tanti figli di mamme italiane portano con levità morale la kefiah, il fazzolettone bianco e rosso, o nero, e non sappiamo cosa pensino le loro mamme quando gliele lavano, e si accorgerebbero che è la stessa kefiah che copre il volto del boia se non fossero protette da chi certe cose non le mostra perché si fa il gioco del terrorismo. Meglio parlare d’altro. I fatti hanno il potere agli occhi degli onesti, di rovesciare i pregiudizi. Metti i colpi di mortaio contro la sede di “Un Ponte per …” la notte fra il 2 e il 3 settembre, quattro giorni prima del sequestro. Perché se ne parla poco, perché la dimenticano anche le ricostruzioni più accurate? Perché contrasta con le teorie del sequestro anomalo, dei servizi torbidi, o solo perché apre il capitolo delle responsabilità di chi non richiamò in patria le ragazze, qualcuno che avesse il coraggio di guardare in faccia la realtà, i fatti, gli avvertimenti, nel classico stile della guerriglia antiamericana e antirachena? E noi siamo invece un paese dei balocchi, illuso che la bontà dei singoli, o la loro correttezza politica sia un lasciapassare, un salvacondotto. Ci illudiamo noi europei che le lacrime di una vecchia madre inglese commuovano. No, gonfiano il petto dei boia di orgoglio, di soddisfazione per il lavoro ben fatto. Sono il bis gratuito del lamento di Kenneth Bigley davanti alla morte. Se lo conosceste il nemico, sapreste che il nostro pianto , nei casi migliori, viene considerato una redistribuzione del dolore: “Dopo le madri palestinesi e irachene, tocca a voi così provate”. Questo dicono.

Noi ci illudiamo che il mondo sia a nostra immagine e somiglianza, “piccoli principi” e piccole “Alice” che ogni tanto s’imbattono nell’orrore, e scambiano i loro pii desideri, che non sono altro che un ingenuo tentativo di schermarci dall’orrore, per la realtà. Noi ci abbeveriamo alla furbizia degli ulema: mentre uno di loro chiede di liberare le due Simona per non sporcare il volto della resistenza, l’altro, nello stesso giorno davanti ad Abu Ghraib, perde il suo tono mellifluo e invita la polizia irachena, il povero esercito iracheno, a ribellarsi agli americani. Avete mai sentito una parola, una sola parola forte, contro i sequestri, contro le decapitazioni, contro l’umiliazione dell’umanità? No, solo sfuggenti considerazioni di opportunità, d’immagine, distinzione tra le ragazze buone e Quattrocchi cattivo, e Baldoni è passato inosservato. Ecco dove l’islam nelle moschee manca di ribellione morale, perde lo scatto che separa i sofismi dall’indignazione. Ma noi, politicamente corretti, siamo capaci di passare sopra i sondaggi di al Jazeera, sopra le vendite record di cd con il meglio delle decapitazioni, sopra i nostri stessi principi, mendicando il sogno di un mondo migliore colorato come una bandiera di pace, ottimista e per bene. Noi che facciamo gli antropologi, intenti al girotondo attorno al buon selvaggio, e sussultiamo: “il vero islam non tratterebbe mai le donne così”. Certo, neanche il vero comunismo avrebbe mai partorito il gulag e Stalin, Pol Pot e la rivoluzione culturale, Milosevic e Castro. Chiedete a Zeynep Tugrul, l’ostaggio turco, chiedete a lei come è stata trattata. O scovate nella memoria distratta al ricordo dell’adultera palestinese trasformata in kamikaze, o chiedete quante irachene sono state uccise per aver lavorato come interpreti. Certo, non c’è nessuno in Italia che dica che il terrorismo non vada combattuto, ma chi vi dice come? Va combattuto nei nostri cuori, negli ordini del giorno dei consigli comunali, nelle fiaccolate?

A noi, qui, a noi che non amiamo le armi, e non solo amiamo la vita più che la morte, ma abbiamo molta paura della morte e vergogna della morte, quando siamo noi a infliggerla, sembra che almeno bisognerebbe stare ai fatti. Stare ai fatti che ci mostrano come l’islam nel suo insieme provi oggi un odio nei nostri confronti che lascia senza fiato chi è abituato agli odii da corteo, da stadio o da reality show. Va fronteggiato guardando in faccia la realtà. C’è una parte dell’islam che non ci odia per convenienza, oligarchie conservatrici, potentati economici. C’è una parte dell’islam che non ci odia perché spera di provare la democrazia e, senza perdere l’anima e la fede, prendere parte alla festa mobile la scia dei consumi, dei telefonini, dei master e delle olimpiadi. Cinquemila iracheni in divisa sono morti per poter votare un giorno e avere una briciola di quello che abbiamo noi. Ma noi dall’alto diciamo che Allawi è un burattino, l’elezioni una truffa, e in cuor nostro continuiamo a chiederci, e del resto lo fanno anche gli imperturbabili inglesi, “ma chi ce lo ha fatto fare?”. Nostalgici di un otto settembre sempre a portata di mano e sempre dalla parte giusta, o anche solo nostalgici dell’infanzia felice dell’andreottismo, amata da tutti, dei missili nelle corsie romane e degli assassini di Klinghoffer liberi. Come era bella la nostra condizione di paese della pizza e di Paolo Rossi, amati da tutti, inoffensivi e simpatici. Non c’era allora questa guerra sorda e sordida e potevano guardare allo specchio provando mille trucchi, beati di tanti volti diversi. Adesso lo specchio è rotto, infranto in mille pezzi, come una vetrata delle Twin Towers. Una parte del nostro paese, cerchiamo di essere sinceri con noi stessi, per favore, ha creduto fino all’altro giorno di essere risparmiata. Quattrocchi in fondo aveva il tesserino della coalizione, e aveva confessato in punto di morte, come si spettegolava in Italia, di essere un camerata. E la liberazione degli altri tre? Era in campagna elettorale. E i morti di Nassiriyah erano morti in divisa, e che al Zarqawi abbia lasciato degli orfani in Italia è stato un dettaglio dimenticato. Le anime belle del nostro paese che guardiamo da lontano, hanno discusso attorno al diritto di un politico, tanto esile quanto coraggioso, Piero Fassino, a prendere parte a una manifestazione romana dove, certo, oltraggiosamente si inneggiò alle cento Nassirya, e, certo inopportunamente, uno striscione inneggiava alla resistenza irachena. Se le anime belle del nostro paese avessero guardato negli occhi la realtà, avrebbero dovuto discutere del diritto di scappare da quella manifestazione, da quella sola parola d’ordine, da quel solo striscione. Non lo hanno fatto le anime belle, e adesso abbiamo elaborato in fretta il lutto per Enzo Baldoni, come se fosse stato uno sbaglio da dimenticare, un fatto che cozza contro una visione del mondo, un’eccezione deplorabile. Per seppellirlo, in attesa che si ricordino di restituire il corpo, abbiamo passato al microscopio il convoglio della Croce rossa, abbiamo setacciato lettere e sporcato il ricordo del buon autista Ghareb e non abbiamo avuto il coraggio di guardare all’unico fatto che conta, chi l’ha ucciso e perché.

Non illudiamoci, per favore, i terroristi non sono gruppi sparuti e invisibili, interi villaggi e città sono sotto il loro controllo e li circondano di consenso. E questo è il prodotto della sola guerra o ha a che vedere, piuttosto, con la storia politica, con i privilegi goduti dal “triangolo sunnita” sotto Saddam, ma anche con le idee che circolano nelle moschee, con un patrimonio di pensiero e di odio che sono merce comune? Certo contano anche gli sbagli della coalizione, dallo scioglimento dell’esercito alle difficoltà a bilanciare fermezza e mediazione, e contano perfino i limiti antropologici e culturali a maneggiare la diversità. Questo ha a che vedere con le vergogne di cui siamo stati capaci, Abu Grhaib, rispetto alle quali qui non vale la consolazione di averle scoperte noi, processate noi, di averle considerate una pugnalata di noi stessi a noi stessi. Questo ha a che vedere con la distanza di parte dell’Europa che ha preferito non sporcarsi le mani, non mettere i piedi nel fango, dopo che un altro aveva sparso l’acqua e pensa adesso di poter essere semplicemente un’Europa che guarda, perché finora le è riuscito bene. I disastri dei Balcani, risolti grossolanamente dagli Stati Uniti, ci hanno visto spettatori per cinque anni senza troppe complicazioni etiche. Stavolta è diverso perché questo campo di battaglia se vinto può aprire un circolo virtuoso, se perso diventerà contagio, diventerà un trampolino di lancio di al Qaida verso l’Europa. Questa palude, in cui i terroristi si muovono come rettili anfibi a loro agio, è teatro di una guerra sporca. Ogni volta che i comandi americani comunicano di aver centrato un covo a Fallujah, le telecamere ci mostrano donne e bambini, vittime inermi. I terroristi non hanno caserme, vivono in mezzo ai civili. La sequestrata turca, che lavorava per un giornale canadese, racconta che temeva anche i bambini nel covo in cui era tenuta prigioniera. Combatterli dal basso vorrebbe dire avere più uomini, più disponibilità a morire, più reparti iracheni, più rivolta morale degli abitanti. Non c’è nulla di tutto questo. A meno che non si aspetti il ritorno delle Nazioni Unite, che lasciarono a Baghdad uno degli uomini migliori, Viera de Mello, e predicano adesso da lontano. I massacri del Ruanda, della Somalia, di Srebrenica, Kofi Annan li vide da vicino , a braccia conserte e senza scrupoli legali. A meno che non si aspetti l’impossibile, non c’è altra via che aiutare gli iracheni a vincere se stessi, senza precipitare in una guerra civile e a misurarsi nelle elezioni possibili. Dicono del contingente italiano, che fortunatamente non fa notizia adesso, in questi giorni a Nassiriyah, che se ne sta in trincea. A noi risulta che abbia garantito le elezioni municipali a Nassiriyah, e che la linea del confronto fermo ma flessibile con i sottoproletari di Moqtada sia stato un fatto positivo, un piccolo aiuto: abbiamo fatto la nostra parte. Se qualcuno ha altre soluzioni, benvenuto. Ma non ci si inganni sulla natura del terrore, non ci si illuda sui suoi confini limitati o sulla sua influenza perfino culturale. Guardate questa fotografia (la fotografia di cui parla Capuozzo raffigura alcuni uomini in ginocchio legati e bendati, con alle spalle, in piedi, poliziotti incappucciati e armati) su un giornale iracheno: i poliziotti sono mascherati per evitare vendette, l’onda limacciosa dello stile dei sequestri arriva fino in commissariato. E se si mostra una gola tagliata, se si esibisce l’orrore che noi pensiamo destinato solo a noi, che cosa si semina nella società irachena? L’idea della forza crudele come idea della ragione trionfante, l’idea della carne nemica come uno scempio da esibire, la legittimazione dell’orrore. Nel primo giorno in cui questo cd è finito in vendita (cominciano a scorrere le sequenze tratte dal cd in cui sono state raccolte le immagini di una serie di decapitazioni e altre uccisioni avvenute negli ultimi mesi, ndr) nelle bancarelle di Baghdad, un solo venditore ne ha vendute 650 copie. Noi vogliamo che lo vediate mondato dalle sue scene peggiori, anche se tutto il resto, anche quello, è insopportabile. Vogliamo che lo guardiate sapendo che è quello che si conserva con gelosia in almeno 650 case di Baghdad, sì sono poche, anche se per un solo bancarellaro in un solo giorno di vendita, ma sono infinitamente di più delle case di coloro che manifestarono per le due Simona, che le pietose menzogne dei mezzi d’informazione italiani trasformarono in centinaia. Si guardi in quelle case le migliori decapitazioni della lunga estate irachena, le morti più spettacolari. Non guarderemo l’atto finale, insopportabile, empio, ma dobbiamo guardare il volto di chi sta per morire e udire le voci degli psicopatici che decidono la morte in nome di un dio, ma non hanno il coraggio di mostrarsi in volto.

C’è qualcuno che ha avuto il coraggio di chiamarla resistenza irachena, e resistenza in Italia ha un senso, un significato, anche al di fuori di ogni retorica. Ansar al Zawahiri: noi lo traduciamo i sostenitori di al Zawahiri, non i partigiani di al Zawahiri: E allora se proprio dovessimo usarla questa parola, dovremmo usarla a proposito dei volti che vediamo andare alla morte, volti dei condannati a morte di una resistenza all’odio, alla superbia, alla ferocia, volti di una resistenza a volte persino inconsapevole e sempre involontaria. Ma se c’è una traccia di umanità in questa guerra sta nelle lacrime di Bigley, sta nell’urlo disperato del sudcoreano, sta nella rassegnazione impaurita dei nepalesi, sta anche nei volti che ci sfuggono di centinaia di volontari che muoiono davanti ai centri di reclutamento. Cosa sono questi iracheni sconosciuti, i servi di Bush, i cosacchi dell’America? O non sono invece i segni muti di una disperata richiesta d’aiuto, di una caparbia voglia di normalità? Sono volti che il nostro paese di dietrologi farebbe bene a guardare in faccia, davanti, per capire dove sta il nazismo e dove la resistenza, e ricordarlo, e cercare di non perdere la bussola. E non perdere una guerra che è anche una guerra di valori, che potremo anche non combattere, ma che possiamo perdere comunque. Ecco la musica che penetra nelle orecchie come una nenia del terrore i simboli di “monoteismo e guerra santa” (Capuozzo si riferisce alla colonna sonora e al logo che accompagnano i video dei terroristi, e comincia a commentare le immagini delle esecuzioni, ndr). Eccola la tuta arancione di Nicholas Berg e quella sua dichiarazione di generalità che è l’aggrapparsi a tutto quello che resta, alla sola umanità possibile: mia madre si chiama Susanna, mio padre Michael, i miei due fratelli Sarah e David.

Eccolo il proclama: Abu Ghraib e Pakistan, e la condanna a morte. Eccole le urla del sudcoreano, “voglio vivere”, faceva l’interprete, “castigheremo le spie, per voi c’è solo la morte” dicono. L’orologio segna le 8,15 del mattino. Alle 8,22 il boia estrae il coltello. Eccolo l’ostaggio turco: “Vogliamo bene ai musulmani di tutto il mondo – dicono – ma voi insistete a lavorare con gli occupatori. Vi abbiamo risparmiato altre volte, adesso non più”. Gli danno una pacca sulla spalla, nella regia che lo avverte che adesso è il suo turno nelle ultime parole. E applicano il giudizio di dio sul camionista turco. Eccolo il bulgaro. “Taglieremo la testa a lui e aspetteremo ventiquattro ore per darvi il tempo di abbandonare l’Iraq, altrimenti taglieremo la testa anche al secondo”. Sentitelo il respiro affannoso del boia. Ventiquattro ore dopo il secondo bulgaro. Ecco l’egiziano accusato di essere una spia. Ed ecco i nepalesi venuti da un paese che non conta nulla sulla scena dei poteri del mondo, venuti a guadagnarsi due soldi. Ed eccolo il centro di accoglienza dell’orrore. La fatica della decapitazione spetterà a un solo boia. Per gli altri un colpo alla nuca. Eccoli i campi del silenzio che continuiamo a ignorare, che non illuminano veglie di preghiera, che non indignano, che non fanno appendere ai balconi del nostro paese lontano nessuna bandiera, che non trovano rivolta, rabbia, che scivolano distrattamente: uomini uccisi due volte. Sono questi i campi dell’orrore di questo nuovo secolo, campi su cui nessuno appoggia un fiore, né margherite né crisantemi, campi che non meritano fosse comuni.

Possiamo vergognarci per Abu Ghraib e Guantanamo, sono le case dei nostri sbagli, delle nostre debolezze. Ma questa è la casa dell’orrore e questo è il cd che raccoglie il meglio dell’orrore. E lo guardiamo con pensiero grato e fiero rivolto a Fabrizio Quattrocchi, che vi si sottrasse con uno scatto d’orgoglio. Adesso sappiamo perché non lo hanno fatto vedere. E forse possiamo pensare che anche Enzo Baldoni, alla fine, si è guadagnato con un gesto o una parola, o un sorriso o qualcosa che non sappiamo, il diritto a non entrare nel manifesto della morte su uomini indeboliti e persi come lo saremmo noi. Noi non vogliamo incitare all’odio, odiamo l’odio. Noi vogliamo che non si chiudano gli occhi, che non si parta dalle idee per spiegare il mondo, ma dai fatti per crearsi delle idee. E vogliamo che la voglia di pace, di tolleranza, di rispetto, di quieta diversità, si armi della conoscenza non delle illusioni, o peggio, dell’inganno. Perché non succeda, in questa Vermicino di tanti anni dopo, che i riflettori accesi sul pozzo illividiscano all’alba, lasciandoci amari, sorpresi, inermi, mentre le anime belle, sul campo sparso di caduti, spiegheranno ancora una volta di chi è la colpa. Invariabilmente nostra.