domenica, settembre 12, 2004

Il Foglio, Editoriale, 12/9/04.


A ottobre l’Afghanistan, un tempo la
centrale da cui partirono gli ordini
d’attacco alle due Torri, voterà per la prima
volta nella sua storia. Sarà un po’ una
lotteria o un gioco surreale tra diciannove
candidati, tanto è vero che i fieri afghani
si sono procurati schede elettorali
in eccesso di qualche centinaio di migliaia.
Sarà anche una lotteria sanguinosa,
perché la stabilizzazione di un paese
che ha vissuto secoli di anarchia, di frantumazione
etnica, linguistica e religiosa,
di guerre e avventure coloniali e post coloniali
e droghe forti al posto del pane
quotidiano, si scontra con la realtà della
guerra occidentale scatenata all’indomani
dell’11 settembre. E’ una guerra a bassa
intensità, con bombe appariscenti e intelligenti
che annichiliscono il nemico solo
quando lo trovano, che hanno effetti
collaterali (è il freddo termine tecnico
che designa le stragi non volute di civili)
talvolta tragici, ma è anche una guerra a
risparmio di energie sul terreno, incapace
di portare a un controllo del territorio
e alla formazione di uno Stato dotato del
monopolio della forza. I Talebani sono
stati sgominati come base armata e ideologica
dello Stato islamico, e cacciati da
Kabul, ma la loro ritirata strategica, consentita
dalla guerra debole e rapida, è finita
nella fatale riorganizzazione del
fronte di guerriglia islamista. Si è stabilito
un regime di condominio con i signori
della guerra tribale, e Hamid Kharzai, il
nostro figlio di puttana a Kabul, si
prova a emergere in condizioni
di sospensione politica, né guerra
né pace, come l’unificatore di
una nazione e il costruttore di
uno Stato moderno e tollerante
tra quelle montagne dell’Asia
centrale circondate da stragisti
islamo-ceceni di bambini e da
mullah iraniani che cercano di farsi
l’atomica puntando sulla divisione tra europei
e americani, con il bel contorno del
Pakistan diviso tra una carestosa fedeltà
di Pervez Musharraf all’occidente e le
mene alqaidiste di una parte dei servizi
segreti. Vaste programme, quello Kharzai,
ma ammirevole e senza alternative.
Il fronte russo è nello stato in cui è, come
dimostra la settimana che ha portato
mezzo migliaio di morti, attentati nel centro
di Mosca, due aerei passeggeri abbattuti,
il massacro di Beslan (e questi non
sono effetti collaterali tragici, sono il succo
e la fiduciosa e gioiosa sostanza volontaria
della guerra santa islamista contro
gli infedeli). Putin ha provato a evitare la
carneficina, non ha fatto alcun blitz come
hanno scritto mentendo per la gola ideologica
quei disgraziati fanatici dell’Unità
e molti altri corbellatori. Tutte le testimonianze,
anche della famosa stampa vip
e liberal, dicono che i soldati russi sono
stati colti impreparati da un incidene
culminato nella fucilazione nella schiena
di bambini in fuga, che ha determinato
l’intervento a loro difesa. Il blitz lo hanno
fatto i protetti ideologici di Padellaro e
M.me Verdurin, gli agenti del "terrorismo
delle vittime" (come dice Jean Daniel, di
cui ci occupiamo in prima pagina). E se
non credete al vostro autorevole New
York Times, titolisti disgraziati dell’Unità
e di molti altri giornali, credete almeno al
racconto dei bambini sopravvissuti al primo
giorno di scuola dell’era jihadista e
delle loro maestre, e chiedete scusa ai lettori
per i vostri riflessi automatici infingardi
e per le vostre chiacchiere. Sta di
fatto che, al contrario di George Bush e di
Ariel Sharon, due che alla guerra rispondono
difendendosi e difendendoci, il presidente
russo, che è alla guida di una democrazia
improvvisata dopo settant’anni
di comunismo sovietico, non ha un credibile
piano politico per uscire dal pantano
ceceno in cui la Russia ha rinnovato la
sua tradizione terribilista nella lotta per
preservare la fragile unità dello Stato, da
Ivan passando per Stalin e arrivando a
Vladimir. Glielo dice anche il Wall Street
Journal, e noi a ruota. E’ vero che bisogna
pur incominciare da qualche parte, e che
se una democrazia anche molto ruspante
ha un senso è perché rompe la continuità
autoritaria della storia che la precede,
ma bisogna sempre tenere conto del fatto
che è come chiedere al ministro dell’industria
italiano di risolvere la questione
meridionale entro la legislatura o a Kharzai
di trattare le sue regioni come la Confederazione
elvetica tratta i cantoni. Si
può tutto, come si vede dalla lunga tregua
in Irlanda ottenuta alcuni anni fa dopo
decenni di repressioni e insurrezioni sanguinose
nel cuore della civile Europa. Ma
ci vuole parecchia pazienza, e niente malafede.
Due doti che mancano ai critici
ideologici di Putin. Il presidente russo,
già cocco e compagnuccio di Chirac nelle
mene che portarono al veto all’Onu, il veto
petrolifero, già beniamino dei pacifisti
antiamericani, che ora gli si rivoltano
contro ingrati, ha aderito alla guerra preventiva
al terrorismo islamista. Un passo
avanti, che sarebbe da festeggiare se la
politica russa fosse sotto il controllo del
Congresso e della libera scelta dei cittadini
come succede in America, sebbene
l’America sia stata derubricata a non-democrazia
dagli ideologi di Micromega.
Sul fronte più importante di tutti, quello
di Israele, bisogna dire che Arafat è a
pezzi, e che nella decomposizione del suo
potere tribale laico si riflette la disperata
tragedia dei palestinesi, che meriterebbero
una classe dirigente capace di
trattare con Israele per avere l’indipendenza
nella sicurezza, perché con gli
israeliani, se non si ammazzano gli ebrei
negli autobus, si è visto negli anni 90 che
si può trattare. Sharon ha raccolto i cocci
del processo di pace distrutto da Arafat,
nel bel mezzo dell’intifada suicida e islamizzata,
con la più vasta guerra islamista
alle porte dell’occidente, come poteva e,
secondo noi, doveva. Con un duro e tragico
lavoro, che gli vale la diminuzione del
novanta per cento degli attentati contro i
civili israeliani (anche qui, non sono effetti
collaterali, sono stragi desiderate in
nome del paradiso e alimentate, in secondo
grado, dalla disperazione sociale)
e gli varrà l’ammirazione degli storici. Incassa,
naturalmente, l’odio feroce delle
persone compassionevoli, dell’egoismo
pacifista di ogni latitudine, e noi che non
vogliamo vedere gli ebrei buttati a mare
siamo felici di condividerne con lui una
sia pur piccolissima parte. Ma Sharon ha
un piano politico, il ritiro unilaterale da
Gaza degli insediamenti, intanto, e la costruzione
di un muro che sia lo scudo e il
simbolo di una sicurezza possibile nonostante
tutto. E il ritiro degli insediamenti
gli vale anche l’odio biblico di una parte
dei suoi, che Dio e lo Shin Bet gli risparmino
la sorte del grande Yitzak Rabin. E
che tenga sotto sorveglianza l’atomica iraniana,
meglio lui che l’Agenzia dell’Onu.
Anche in Iraq c’è un governo diretto da
un nostro figlio di puttana, Iyyad Allawi,
mentre Saddam è in galera. Vige una legge
amministrativa transitoria, c’è il bollo
dell’Onu, che era fuggita dopo il bombardamento
della sua sede ma è tornata e si
è un po’ data da fare, ci sono elezioni programmate
per il prossimo gennaio. Ma
anche lì la guerra è stata rapida e per
quanto possibile "umanitaria", centocinquantamila
soldati per un paese enorme
e popoloso e diviso in almeno quattro-cinque
confessioni ed etnie bollenti evidentemente
erano insufficienti, le operazioni
militari di una coalizione costretta sulla
difensiva dal tradimento di mezza Europa
e di mezzo occidente sono state improntate
alla risibile ricerca della conquista
dei cuori e delle menti del paese
sconfitto, che non ha mai avuto la sensazione
di quel che significhi essere nazione
vinta. Anche lì c’è stata la ritirata strategica
dei baathisti, protetti dall’amica Siria
e confinante, con gli sciiti è
difficile intendersi, sia perché
Bush padre, quando i neoconservatori
scrivevano articoli e non influivano
sulla politica estera, li lasciò
massacrare da Saddam insieme
con i curdi, sia perché una
parte degli sciiti non è così contemplativa
come il vecchio Sistani,
e Dio lo mantenga contemplativo
anche dopo elezioni che presumibilmente
vincerà, e poi sono in
azione congiunta gli agenti degli
ayatollah iraniani, gli emissari binladenisti
di al Zarqawi e qualche disinvolto
servizio segreto della vecchia cricca
franco-russo-saddamita (nessuno ce lo toglierà
di mente, anzi, ce lo ha ricordato
Chirac quando ha ottenuto la solidarietà
terrorista per la liberazione dei due giornalisti
francesi, che speriamo siano al più
presto liberi con le due Simone, un po’
meno protette da un governo che ha chiesto,
ma pensa quanto è cattivo Berlusconi,
di tagliare i finanziamenti europei ad
Hamas). Il risultato di tutto questo è che
Fallujah e Samarra sono nelle mani di si
sa chi, e gli eserciti privati del bandito al
Sadr sono incerti se continuare a sparare
o riciclarsi nel futuro governo iracheno.
Intanto sono stati ammazzati più soldati
americani dal passaggio dei poteri ad Allawi
ad oggi (148) che nella guerra del
marzo-aprile 2003 (138).
Stiamo perdendo, come domandò
Rumsfeld ai suoi qualche mese fa? No.
Stiamo combattendo. Bene e con coraggio,
ma con l’idea che il fronte principale
è quello poroso e infido dell’opinione
pubblica occidentale e dei suoi sondaggi.
Per questo bisogna che vinca Bush, e bisogna
rispondere a tono anche ai pundit
sciagurati che vogliono legare le mani all’occidente,
sconfiggere Bush, poi convincere
eventualmente Kerry a diventare
francese, e che ci ripetono, come fosse
una verità logica o politica, quanto costi
fare la guerra, perché il nemico terrorista
e islamista risponde. Quando comandavano
loro, la situazione era rovesciata. Il
nemico attaccava, e noi rispondevamo
con l’aspirina del dialogo o trattando il
terrorismo jihadista e islamista come una
qualunque organizzazione criminale. E fu
l’11 settembre. Mai più.